venerdì 5 maggio 2023

50 ANNI INSIEME


Tutto ebbe inizio un pomeriggio di sabato del 1966 sulla strada che da Erba conduce a Molteno. Maria Grazia aveva 22 anni e stava camminando con due amiche verso il campo del pallone di Luzzana. Gianfranco di anni ne aveva 25 e girava in auto anch’egli con due amici in cerca di…

Pare che Gianfranco ebbe una vera e propria folgorazione e disse: “Scegliete quella che volete ma questa l’è mia” e Maria Grazia abbandonata la prudenza di ogni casta giovincella e forte del gruppo delle amiche pensò che un giro in auto si potesse anche fare. Sappiamo che un’amica di Maria Grazia stette male e non arrivarono nemmeno in gelateria, sappiamo che Gianfranco rimproverò Maria Grazia per non avere subito soccorso l’amica, sappiamo anche che Maria Grazia dimenticò l’ombrello in auto.

La prima uscita non fu un successo, ma qualcosa era sbocciato tra i due. Gianfranco con la scusa di riconsegnare l’ombrello si ripresentava puntuale ogni sabato, per poi fingere di averlo scordato. Maria Grazia, colpita dalla preoccupazione dimostrata per l’amica durante il primo incontro, faticava a conciliare una presunta serietà del ragazzo con il suo modo di vestire decisamente spavaldo e discutibile: quel giovane non indossava mai nulla di elegante, sempre magliette gialle con disegnate tre donne improponibili! Inoltre, aveva un naso importante o a detta di Maria Grazia: “L’è mia brut ma el ga un nas…”. Magliette e naso a parte la storia andò avanti per sette anni con un tentativo di matrimonio mancato perché il sabato designato per l’evento, Gianfranco doveva lavorare. E poi arrivò maggio: il 5 maggio 1973.

La cerimonia era fissata per le 15:30 nella parrocchia di San Giorgio in Molteno.  Finalmente eccoli lì sull’altare giovani e bellissimi a pronunciare il loro “Si”. Giusto per fare un po’ di gossip quella mattina Gianfranco non era stato in casa a prepararsi. Dove pensate che fosse un brianzolo a poche ore dal matrimonio? Era al capanon, in bottega, perché c’era un lavoro urgente da consegnare! E tra la fretta e l’agitazione si era tagliato e presentato all’altare con un bel cerotto al dito.

“Ci sosterremo e sopporteremo a vicenda finché morte non ci separi nella buona e nella cattiva sorte.” In quel momento si recita una litania tante volte sentita ma il bello viene dopo quando da quella chiesa si esce e la litania diventa realtà. Ma andiamo con ordine.

Un anno dopo arrivò la prima bimba, con le mani lunghe, la testa a pera per il lungo travaglio e un naso… beh “marca R”. Dice la leggenda che se fosse nata maschio sarebbe stata Tarcisio, ma la storia è altra, il destino la volle femmina e così le venne dato nome Renata. Primo figlio: gioie e dolori, tanti, forse troppi ma passa e quattro anni dopo arrivò una sorellina. Nomi maschili non vennero presi in considerazione, la forma della pancia parlava chiaro e tra Rodolfa e Paola vinse Maria Luisa. Fortunatamente la bambina si presentò senza testa a pera e con un naso meno appariscente.

Tutto sembrava andare per il meglio: la casa era pronta, il capannone avviato; ma un maledetto viaggio di lavoro a Maratea portò scompiglio e così Gianfranco, ormai papà, e il fratello Felice si ritrovarono in un letto di ospedale della Calabria abbandonati a loro stessi e lì sarebbero rimasti se zio Giovanni, zia Angela e zio Luciano non fossero partiti da Erba in ambulanza per andare a riprendere i loro fratelli. Trascorsero due anni di difficoltà di ogni tipo. Quando papà iniziò a stare meglio e si resse in piedi sulle stampelle, pensò di ringraziare la madonna che gli era apparsa in sogno durante la degenza in ospedale e decise per un altro figlio. Fosse la madonna o una forte dose di tranquillanti, lasciamo alla vostra sensibilità e al vostro credo, ma il figlio arrivò e prese il nome del fratello che lo aveva sottratto da morte certa: Giovanni.

Andando avanti di questo passo, vi distraete per cui acceleriamo un po’.

La famiglia era al completo: il tentativo di adottare due bambini sopravvissuti alla catastrofe nucleare di Cernobil non andò a buon fine e così rimasero in cinque.

Gli anni passarono con ritmi e velocità diversi a seconda dei momenti: i pranzi di Natale con zia Tita e zio Pier e le gite a Santa Caterina; le sere di Capodanno con Zio Andrea e Zia Enrica; le vacanze estive in quel di Esino Lario alternandoci a zia Bambina e zio Felice e poi i classici dieci giorni di agosto a San Remo o Bussana. Per inciso fuori dalla casa vacanze c’è ancora il posto auto di papà, proprio lì difronte al portone di ingresso! Perché il motto della vacanza era: “Al mar sem arrivà, mo la machina la se tuca no fino a la partenza”.

E poi ancora tanti scorci di vita quotidiana che di tanto in tanto tornano alla mente: “I pacchi che arrivavano dal convento di zia Renata; zia Rina anche lei suora perché in famiglia la santità non manca;  la pasta al forno e la torta paesana di zia Doso e zio Cesare, per non parlare della torta Dosolina la cui ricetta abbiamo tutti ma nessuno sa se davvero l’abbia inventata zia Doso; i regali di Natale di Zio Erminio e zia Ausilia per i bambini; zia Angela e zio Luciano con i quali trascorrere le sere estive in quel del capannone e le gite a Tovo; zia Regi e zio Giovanni e il loro galletto grigliato al Pian dei Resinelli; la mitica zia Giulia che ha fatto da seconda mamma a tanti nipoti; e ancora…zio Giulio che ci ha salutato troppo presto."

Cinquant’anni di vita di coppia prima allargata e poi ristretta perché è il giro della vita: i figli crescono, scelgono la loro strada, a volte non li capiamo ma li accettiamo perché fa parte dell’amore e sempre grazie all’amore arrivano generi, nuore, suoceri e nipoti.

Renata è andata a vivere a Milano con Antonio e oggi con loro ci sono Marco e Luca. Maria Luisa si è fermata a Monguzzo con Paolo e con loro c’è Miriam. Giovanni ha incontrato Jessica, hanno scelto casa a Longone e con loro Tommaso e Federico.

Cinquant’anni di sostegno e sopportazione reciproca, di affetto, rispetto e tanta pazienza perché la vita insieme è volontà costante, fatica e impegno; è una scelta e una conquista quotidiana.

E così oggi siamo tutti qui per festeggiare questi cinquant’anni. Molti di voi c’erano quel giorno e molti purtroppo ci hanno salutato per sempre; la vita ha un tempo limitato e non ci possiamo fare nulla. Ma quel tempo è un regalo prezioso e tutte le persone che ci accompagnano negli anni ci regalano una parte di loro. Sarebbe bello essere qui tutti insieme, rivedere genitori, fratelli e sorelle ma forse con noi ci sono perché li portiamo nel cuore, sempre.

Tanti auguri mamma e papà. Vi vogliamo bene.

Renata, Maria Luisa e Giovanni

martedì 21 febbraio 2023

COVID 19 ... per non dimenticare

Il governo di Pechino il 23 Gennaio 2020 impone la chiusura per quarantena dell’intera provincia dell’Hubei dove si trova la città di Wuhan. Blocco completo degli spostamenti all’interno del paese e di conseguenza dei collegamenti stradali, ferroviari e aerei. Blocco totale dell’economia e chiusura di tutte le scuole. Wuhan diventa simbolo di una città fantasma: strade vuote, negozi chiusi, parchi disabitati, spesa alimentare consentita solo online e consegne per comprensori al fine di ridurre al minimo i contatti. Obbligo assoluto di restare in casa e monitoraggio degli spostamenti di tutte le persone tramite il GPS dei loro dispositivi cellulari. Wuhan città natale di un virus apparso tra Ottobre e Novembre 2019. Un virus che si manifesta con tosse, febbre alta, stanchezza, difficoltà respiratorie e che degenera inesorabilmente causando la morte del paziente nell’arco di poche ore. Non in tutti, non sempre.

Da qualche giorno gli occhi di tutto il mondo osservavano cosa stava succedendo in Cina. Ma la Cina era lontana e la distanza riduceva l’empatia.

Mentre si cercava di capire da cosa fosse generato il virus e mentre gli esperti indirizzavano le coscienze ad abbracciare una tesi o l’altra* il virus venne diagnosticato anche in Italia e successivamente nell’intera Europa e come è facile ipotizzare varcò i confini.

Venerdì 21 Febbraio 2020, venerdì grasso in quel di Milano, un trentottenne di Codogno risultò positivo al Coronavirus. Nelle ventiquattro ore successive l’intero Paese sprofondò in una sorta di delirio collettivo: supermercati presi d’assalto, reti televisive sintonizzate su un unico tema, panico. 

Lunedì 24 Febbraio 2020: scuole chiuse, molti uffici anche. L’inizio di un incubo.

L’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità) parlò subito di pandemia da cui nessuno era escluso.

Il governo italiano adottò un approccio graduale nel tentativo di contenere la diffusione del virus. Vennero istituite le Zone Rosse: vere e proprie zone di confino nelle quali non si poteva entrare o uscire a causa della presenza di focolai del virus. Drastici limiti agli spostamenti in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna, interessate dalla prima ondata del virus, con chiusura delle scuole e di molte attività produttive e introduzione di smart working.

Vivevamo tutti rinchiusi, terrorizzati dalle immagini che la TV ci mostrava: file di carri militari che trasportavano corpi morti, distese di bare negli ospedali, medici e infermieri costretti a lavorare per ore e ore in una sorta di scafandro antivirus nel tentativo di non morire mentre cercavano di salvare la vita ad altri, corpi intubati nell’estremo tentativo di strapparli ad una morte quasi certa. La spesa alimentare un incubo: carrelli riempiti on line e confermati nelle più disparate ore notturne, consegne ritardate e la ossessiva pulizia con alcool di ogni confezione di cibo depositato dal commesso del supermercato sul pianerottolo di casa. Ragazzi costretti a vivere la scuola davanti allo schermo di un computer: nessuna interazione con gli amici e con gli insegnati.

Fuori dalla finestra assoluto spettrale silenzio. E la paura che nonostante l’isolamento quel virus potesse raggiungerci comunque.

L’estate 2020 sembrava l’inizio della ripresa ma ad ottobre il Virus tornò. Nei mesi successivi l’Italia intera diventò la tavolozza di un pittore che spazia dal rosso all’arancione, dall’arancione al giallo dal giallo al bianco.  Gli indici dei contagi avevano il potere di cambiare il colore con cadenza mensile o settimanale. E il colore decideva le libertà concesse e quelle non. Dalla spesa on line si passò alla spesa con ingresso programmato e numero contingentato. La spesa: l’unica solitaria uscita consentita. 

In quei lunghi mesi siamo diventati tutti esperti di mascherine: chirurgiche, FP3, FP2 con filtro , senza filtro. Questo oggetto, indossato gli anni prima solo da qualche turista orientale per limitare gli effetti negativi dello smog,  diventò l'accessorio assoluto di ogni outfit. Poi finalmente la prima svolta. Nella primavera 2021 il primo vaccino: sono state somministrate le prime dosi con tutte le polemiche che lo hanno accompagnato e finalmente con il Green Pass ci siamo sentiti un po’ più sicuri ma ancora per gran parte del 2022 abbiamo convissuto con la pandemia. Con il passare dei mesi i contagiati hanno presentato sintomi sempre più lievi/simili nella maggior parte dei casi a quelli di una influenza stagionale.

E mentre il virus smetteva di fare paura, la guerra in Ucraina ha preso il sopravvento e il virus è subito sparito da trasmissioni televisive e dialoghi delle persone.

Sono trascorsi tre anni da quel Febbraio 2020, siamo tornati alla vita di prima, ma due anni sono rimasti sospesi. Per chi ha avuto la fortuna di poter lavorare per tutto il periodo in smart working isolato tra le mura della propria casa, la sensazione più comune del ritorno alla "normalità" è stata quella di incontrare amici, colleghi e conoscenti e parlare con loro di un ieri lontano due anni come se fosse stato lontano solo poche ore. Due anni scanditi da abitudini, ritmi e quotidianità diverse e per molti aspetti non vissuti.


*Ipotesi complottista: il virus e l'epidemia sono una nuova arma biologica.

Ipotesi errore: virus prodotto in laboratorio per valutare la capacità di causare l'infezione da Covid nelle vie aeree umane e diffusosi accidentalmente

Ipotesi selezione naturale: un virus che dai pipistrelli sarebbe passato ai pangolini e da questi ultimi all’uomo, fortificandosi attraverso successive mutazioni genetiche.


mercoledì 18 gennaio 2023

FERITO A MORTE -regia di Roberto Andò-



Ho acquistato i biglietti la sera di Halloween, attratta dalla promozione che avrebbe reso interessante qualsiasi rappresentazione. Tra un panel di proposte ho scelto senza dare troppo peso alla trama, alla regia, al cast. Alle spalle un romanzo di Raffaele La Capria che vinse il premio Strega nel 1961: male non sarà.

Poi è arrivata la sera della rappresentazione al PICCOLO.

Giornata di lavoro, lezione di total body circuit interrotta in anticipo per una veloce doccia, di corsa in metropolita ed eccomi davanti al teatro. Antonio è già qui ad aspettare. Un caffè con dolcetto prima di prendere posto per tamponare la mancata cena e tenere attivi i neuroni. 

Posto comodo nella platea centrale sinistra: la poltrona alla mia destra vuota, quella davanti occupata da una ragazza dalla folta chioma che mi costringe a spostare il collo a destra e sinistra a seconda della scena, alla mia sinistra Antonio. La temperatura nella stanza piuttosto bassa o forse sono io poco vestita. Fortunatamente ho con me il mio pellicciotto color panna.

Si apre il sipario, inizia la rappresentazione e... ma quello è Antonio Forte! Sì insomma Giovanni Ludeno che interpreta il personaggio di Antonio Forte nella serie tv “Lolita Lobosco”. Mi sembra di conoscerlo perché le serie tv hanno il potere di farti amare i personaggi e renderli familiari.

Alcune serie le seguo da tempo, ma la maggior parte le ho scoperte durante i mesi della pandemia. In quel periodo ho recuperato le produzioni degli ultimi 10 anni, è stato un modo per evadere, una compagnia ricercata sullo schermo, una sorta di obiettivo o meta alla fine di giornate tutte uguali. Mi piace la recitazione degli attori italiani, mi piacciono le storie che raccontano e gli accenti delle varie geografie.

Giovanni Ludeno qui è Ninì, personaggio chiave dello spettacolo, intrattenitore istrionico, formidabile.

Lo spettacolo continua, gli attori sono tutti molto bravi, curati gli abili, interessante la resa scenografica. 

Compare Gea Martire, madre di Ninì, già conosciuta in film e serie televisive che amo da “Il Commissario Ricciardi” a “I bastardi di Pizzofalcone”. Anche lei interprete meravigliosa e poi Paolo Mazzarelli in Sasà, Clio Cipolletta in Assuntina e Mariella, Sabatino Trombetta in Massimo giovane, Giancarlo Cosentino nel signor De Luca…

E Lei, la Nonna di Ninì, Aurora Quattrocchi. Lei, fantastica in “Nostalgia” accanto a Pierfrancesco Favino ed esilarante madre di Nino Frassica nella serie “I fratelli Caputo”… Lei incontrata in tanti film è qui. Meravigliosa e immensa sulla scena. Vederla recitare dal vivo è una emozione unica.

Purtroppo la storia non mi entra dentro, non mi coinvolge abbastanza, sicuramente è colpa della stanchezza della giornata, se non fosse per la bravura degli attori un po’ di torpore in alcuni momenti colpirebbe “anche” me. Ma la recitazione merita davvero un posto in platea.