venerdì 31 ottobre 2008

Odore d'incenso

Ieri il grande capo è sceso dalle alte sfere romane e ha raggiunto Mamma nel suo loculo milanese, che poi tanto loculo non è.
Mamma non si aspettava nulla dall’ incontro, le faceva piacere sapere che il grande capo si era scomodato per lei ma non si aspettava nulla.
Mamma conosce poco il grande capo, non ha mai lavorato direttamente con lui, gli sembra un professionista serio, una persona gentile ed educata. Il grande capo non conosce Mamma, sa quello che altri gli hanno raccontato di lei.
Mamma sa che non è facile per il grande capo romano gestire una Mamma part time milanese e quindi in modo sincero manifesta la sua disponibilità nei confronti di qualsiasi proposta lavorativa.
“Come è andata con il capo? ” chiedono due colleghi e amici “Davvero non lo so” risponde Mamma.
Mamma dopo tre ore di full immersion con il grande capo non era felice ma non era nemmeno triste. Il grande capo le aveva proposto un lavoro nuovo, diverso, decisamente poco indicato al carattere di Mamma ma pur sempre un lavoro; un lavoro da svolgere con minore autonomia, ma ogni capo ha il suo approccio al lavoro; un lavoro?!
Perché Mamma continua a sentire un senso di inadeguatezza e insoddisfazione? Infondo non si aspettava nulla?

Avete presente l’odore d’incenso che si respira durante le cerimonie sacre? E’ un odore acre, intenso, anche piacevole se respirato dalla giusta distanza ma quanto più ti avvicini alla fonte quanto più l’odore si intensifica, il fumo che veicola la fragranza ti avvolge e ti senti soffocare. Mamma non sa perché ma dopo tre ore con il grande capo sentiva l’odore d’incenso così vicino da non riuscire a respirare. E più ripensava alla nuova attività più il senso di soffocamento aumentava.

Mamma torna a casa e sente i bambini piangere prima ancora di entrare. Papà le apre la porta disperato: “ Per favore vedi se riesci a calmarli io non ce la faccio più!”
“Che c’è? Cosa è successo? Venite qui a darmi un abbraccio forte forte” dice Mamma.
Marco piangeva perché Papà non l’aveva fatto giocare con i missili e Luca piangeva e basta.
“Ma che missili, non abbiamo missili?” “ Si Mamma guarda!”.
Sparsi per terra vicino all’armadietto del bagno tanti piccoli missili bianchi pronti per librarsi nello spazio, per terra accanto ai missili una scatola di Tampax vuota.
“Finalmente un po’ di pace, come ci sei riuscita? Come è andata oggi con il capo?”
“Bene, direi bene.”.

Avete presente l’odore d’incenso?
Vi avvolge, vi soffoca e il fumo vi annebbia la vista, ma alla fine è solo incenso e quando svanisce tutto è ancora come prima.

mercoledì 29 ottobre 2008

La 50!

Qualche giorno fa mi ha telefonato Antonio, mio marito: era sulla 50, la nostra linea e voleva semplicemente ricordarmelo.
Mio marito non è un autista dell’ATM né tantomeno mi informa tutte le volte che cambia mezzo di trasporto, ma la 50 è per noi il ricordo di un evento lontano nel tempo e forse lo sarebbe anche nei ricordi se non fosse che ha cambiato due vite.
Era un venerdì sera di inizio novembre, non so se piovesse o meno, ma per il fatto stesso che fosse novembre mi piace pensare che piovesse, quindi era un piovoso venerdì sera di inizio novembre ed entrambi uscivamo dall’ufficio. Non ricordo dove stesse andando lui, di certo io dovevo correre al treno perché avevo un appuntamento diciamo con un amico.
Ci sediamo negli ultimi posti, nei sedili a quattro, uno di fronte all’altro.
Io indossavo nell’ordine una camicia, una giacca e un giaccone e per un autobus riscaldato era davvero troppo. Avevo caldo e l’essere vestita a cipolla fu inizialmente d’aiuto, ma avevo molto caldo. "Accidenti questo finestrino è rotto? Si soffoca!". Non stavo parlando a lui, lo so bene che non si parla con gli sconosciuti, se poi hanno un aspetto poco raccomandabile peggio ancora: parlavo tra me e me a voce alta come faccio abitualmente. Non si accettano commenti o insinuazioni sul fatto che io parli tra me e me a voce alta, potrei accettare qualche critica sul fatto che avessi giudicato Antonio un tipo poco raccomandabile ma lo dovete conoscere bene per pensare il contrario. Di fatto quella sera era decisamente mal vestito e poco curato, con la barba incolta da giorni e l’espressione stanca, l’unica nota che stonava era un sole 24 ore che spuntava dalla tasca del giaccone: un sole sciupato e ripiegato che sembrava fosse stato studiato più che letto, un sole che poteva aver anche raccolto dopo aver pulito le scrivanie degli uffici e che avrebbe potuto reciclare in mille modi per quel che ne sapevo io. Senza nulla togliere al nobile lavoro di chi pulisce le scrivanie tutti i giorni o che dovrebbe farlo, l’insieme degli elementi erano decisamente a suo sfavore.
"Aspetta provo io!".
Ancora oggi non so se sia mai riuscito ad aprire il finestrino: lui sostiene di sì e io di no; ma quel finestrino ha dato il là a trenta minuti circa di conversazione. Non trenta minuti idilliaci ma di imbarazzo e di gaf continue.
Lui: "Lavori là dentro? Ma ti piace? Io non sopporto quei tipi che lavorano per società come l’Accenture che se la tirano tanto e poi non fanno nulla se non slide che vengono riviste cinquanta volte prima che la forma sia così perfetta da avere il sopravvento sul contenuto! Tu per chi lavori?". "Io veramente sono una consulente di Ernest & Young". Gelo.
Per chi non lo sapesse la società per cui lavoravo era abbastanza simile ad Accenture e anche io facevo le solite noiose e spesso inutili slides che venivano riviste cinquanta volte e forse anche cinquantuno; lui questo lo sapeva e se non lo avesse saputo l’avrebbe capito in quel momento dal mio sguardo.
"E tu?".
"Ma io perdo tempo, cazzeggio". Ecco l’avevo detto io che era poco raccomandabile. "Adesso mi sono iscritto anche ad un corso di teatro per occupare il tempo!".
Visto che lo stare zitta non è esattamente una delle cose che mi riesce meglio nemmeno davanti ad un apparente scapestrato: "Teatro? Ho visto l’Amleto lo scorso week end. Mi ha colpito molto la colonna sonora, un tale Bregovic che non conoscevo".
A dire il vero mi aveva colpito soprattutto Kim Rossi Stuart nei panni di Amleto ma non era nè il momento né la persona a cui dirlo. "Bregovic? Quello che ha composto la colonna sonora di alcuni film di Kusturika. Il regista di Underground, Gatto Nero, Gatto Bianco. Dai che lo conosci!". Imbarazzante, terribilmente imbarazzante. Io Kusturika non lo conoscevo, la mia conoscenza o meglio la mia coscienza cinematografica era molto lontana da Kusturika. Avevo visto nove volte Pretty Woman e altrettante volte Dirty Dancing, questi erano i miei film: film impegnativi più che impegnati, film che dovevi guardare con attenzione per non perdere ogni fotogramma che riprendesse Richard Gere o Patrick Swayze.
"Che gli rispondo?" fingere ignoranza per adattarsi a chi è più ignorante di te è facile ma fingere una cultura che non hai è ridicolo e allora: "Veramente non lo conosco ma mi hai dato una buona idea per il week end, ho appena fatto la tessera al Blogbuster".
Un po’ di sincerità ci voleva ma non troppa e quindi su Pretty Woman e Dirty Dancing silenzio.
I minuti passano e la conversazione continua. Sarà anche stato l’addetto pulizie ma era piacevole conversare con lui, aveva tanti interessi: teatro, cinema, poesia. Aveva anche un indirizzo di posta elettronica!
Ci salutiamo.
Sul treno mi chiama una amica: "Sai ho conosciuto un tipo sull’autobus, sembrava fiorentino dall’accento, un tipo strano ma interessante! Comunque sto arrivando, dove ci troviamo, bla bla bla".
Dopo un discreto week end in cui avevo rimosso l’incontro con il fiorentino, apro il pc e trovo una mail di invito al caffè. Ci vado e ritorno con un cd con le musiche di Bregovic, forse non l’intero repertorio ma quasi.
Era solo l’inizio ed era Altamurano!

martedì 28 ottobre 2008

La glicerina

Ieri Marco mi ha portato il solito bellissimo regalo fatto alla scuola d’infanzia. Non chiamatela “asilo” se non volete un' orda di bambini che vi riprendono come se li aveste catalogati quali esseri inferiori ancora iscritti al nido!
Il solito disegno insomma, le solite macchie di colore tinta unita. A volte ci sono anche le varianti a due colori o tre ma molto di rado.
Tra le macchie di colore tinta unita emerge qualcosa di più definito, molto famigliare: “Non è possibile? Fino a questo punto?”

Mio figlio Marco da nove lunghi mesi ha convogliato buona parte della gelosia nei confronti del fratellino su un rituale comune a tutti gli esseri umani, su una sana abitudine che si è trasformata in un momento di sofferenza famigliare condiviso da tutti con una partecipazione senza uguali e che ci ha indotto a consultare più volte uno specialista. Questo incubo è stato in parte risolto con l’ausilio di un artificio che funge più da stimolante psicologico nei confronti di una ritenzione che poco o nulla aveva di fisico che da strumento di effettivo aiuto.

Avevamo tutti da tempo capito l’importanza di questo minuscolo oggetto dal tappo blu, lo avevamo capito dalla gelosia con la quale difende dalla invadenza del fratellino la sua collezione di tappi blu… ma che il primo oggetto ben identificabile su un disegno di un bambino di tre anni fosse un tubetto di GLICERINA non ce lo aspettavamo proprio!

lunedì 27 ottobre 2008

Non so come mi comporterei!

Questa mattina sono uscita di casa molto presto complici il ritorno all’ora solare e l’improvviso risveglio di Luca che ancora non ha metabolizzato il cambiamento.
La metro era più vuota del solito e mi sono fermata accanto a due ragazzine poco più che sedicenni.
La scena è abbastanza frequente: a quell’ora ci sono sempre molti studenti e io osservo tra l’ammirato e lo stupito la disinvoltura con cui molte ragazze indossano abiti succinti o scollature provocanti che lasciano poco spazio alla immaginazione. L’ammirazione è sincera: penso di non essere mai stata capace di indossare abiti “esagerati” anzi penso di non averne mai avuti; da un lato gli insegnamenti famigliari che vedevano in certe scollature e minigonne un attentato alla incolumità personale perché “non si sa mai chi si può incontrare” e dall’altro l’imbarazzo che mi impediva di essere me stessa le poche rare volte che indossavo abiti “troppo” appariscenti. Lo stupore è totale: se solo pensassi di uscire con una maglietta che non si infila nei pantaloni e con un collo meno alto di sette centimetri penso che mi verrebbe un attacco di tosse e annessa bronchite.
La scena è abbastanza frequente dicevo: una ragazzina piuttosto carina e vestita da ricovero ospedaliero di lì a due ore, parla con l’amica. L’amica appartiene a tutt’altro genere: di certo non una bellezza mozzafiato, di fatto abbruttita dal tentativo di nascondere dentro un involucro nero qualsiasi forma che la identificasse non dico come donna ma come essere umano. Insomma le due parlano e come era facile prevedere la super figa, chiamiamola così, racconta alla amica la sua uscita domenicale, la sua solita bevuta con gli amici, l’essere rincasata quasi ubriaca; dall’altra parte l’amica la redarguiva dicendole che se avesse continuato così, probabilmente sarebbe finita in un centro per alcolisti prima dei diciassette anni. La mia solidarietà andava alla amica sfigata, nostalgicamente più vicina a come ero io a sedici anni, ma questa è un’altra storia.
Insomma fin qui tutto nella norma: esagerare un po’ nel raccontare le proprie imprese eroiche per sembrare ancora più femme fatale è normale a quell’età, cercare di farlo poi su un vagone della metro dove la comunicazione non è riservata e dove tutti ascoltano più meno attentamente quello che dici è ancora più affascinante. Ti senti importante, ti senti ammirata e non hai ancora il doppio degli anni di chi ti ascolta e ride dentro di sé ripensando a quando aveva la tua età e a quante stupidaggini stai dicendo!
Poi il treno entra in stazione e il rumore è tale da interrompere il collegamento tra me e loro e quando il suono della conversazione raggiunge nuovamente le mie orecchie mi sono persa alcuni passaggi fondamentali, mi manca il legame tra il prima e un dopo che sembra così fuori luogo: “Se mai dovessi avere un figlio, non sarei come mia madre ma non so come mi comporterei!”. La ragazza figa stava ancora sparando cazzate!? Perché parlava di sua madre? Cosa centrava con il fatto che poco prima stava bevendo? Forse era l’amica che stava parlando?
Qualcosa non andava, la ragazza aveva detto qualcosa che poteva sembrare sensato e forse lo era davvero.
Scendo dal treno e mi incammino verso l’ufficio: sono cinque minuti a piedi, è ancora presto e non incontro nessuno che conosco.
“Non so come mi comporterei!”. Cercavo con superficialità e supponenza di catalogare la frase tra le tante “cazzate” che si dicono a quell’età per sembrare adulti, per apparire, per sfoggiare un io che ancora ha bisogno di contenuto e invece la ragazzina, forse inconsapevolmente, mi ha fatto riflettere.
“Come mi comporterei se fossi una madre?”
Ho pensato ai miei figli e alla madre che cerco di essere, alle tante volte in cui penso a come mi comporterei in situazioni che mi capita di osservare e la ragazzina aveva proprio ragione.
Non si comporterebbe come sua madre e non sa come si comporterebbe in circostanze analoghe perché non è sua madre e non ha davanti a lei un figlio suo. Perchè ogni rapporto tra madre e figlio è unico e speciale e solo il vissuto di entrambi, il carattere di ciascuno e l’amore che li lega rende le scelte altrettanto uniche e diverse momento dopo momento.
Devo ringraziare quella ragazzina sconosciuta che mi ha permesso di crescere un po’ di più.

venerdì 24 ottobre 2008

La nascita di Marco e Luca

In questi giorni abbiamo festeggiato il compleanno di Marco e Luca.
In questi giorni non ho potuto fare a meno di ripensare al giorno della loro nascita.
Due momenti importanti, diversi tra loro, unici.
Marco è nato con un parto naturale rispettando abbastanza fedelmente gli appunti presi al corso pre-parto. Ha iniziato a farsi sentire un venerdì sera verso le ventuno mentre stavamo cenando con amici. Avevamo scelto quella data per incontrarci perché ormai si avvicinava il termine e non avremmo potuto rimandare oltre e invece Marco non era più disposto ad aspettare. Prima una fitta alla schiena, poi altre più forti e quando alle ventitrè abbiamo congedato gli ospiti non avevo più dubbi. L’ostetrica l’aveva detto : "Quando arrivano i dolori li riconoscete, non potete sbagliare.". Era vero.
Ma ero stanca, molto stanca: avevo lavorato quasi tutto il giorno e in cucina c’erano ancora tutti i piatti da sistemare e non ce la facevo proprio a pensare che avrei dovuto impegnarmi come mai in quei nove mesi.
"Andare in ospedale?" Gli appunti del corso dicevano di aspettare, le fitte erano ancora troppo distanziate e bisognava aspettare i sette minuti tra una contrazione e la seguente e allora "Seguiamo le istruzioni no?"
Prima i piatti e poi a letto. "Ma chi riesce a dormire?"A pagina tre degli appunti c’era scritto di immergersi nella vasca con l’acqua calda, ma Antonio era crollato dal sonno, io faticavo a muovermi da sola e poi continuavo a ripensare al lavoro che stavo ultimando qualche ora prima. Ora mi sembra così assurdo ma di fatto Marco stava per nascere e io ancora non mi rendevo conto che il lavoro d'ufficio non avrebbe potuto più occupare un posto tanto importante nella mia vita.
Accendo il pc, mando la mail, spengo, mi immergo nella vasca, l’acqua inizia a raffreddarsi e non ce la faccio proprio ad uscire. Finalmente Antonio mi sente.
"Massaggiami la schiena, mi sto spezzando in due!". Dopo l’indispensabile aiuto di mio marito che per due ore ha sopportato e supportato le mie richieste di massaggio e di sostegno continuo, è ora di andare in ospedale.
"Signora è già a buon punto non ci vorrà molto" dice il medico alle sette e qualche minuto e aggiunge: "Vedo che qui c’è tutta la documentazione, vuole fare la partoanalgesia?" "Ma io veramente non penso, i dolori aumenteranno di molto?" "Aumenterà un poco la frequenza e l’intensità."
Ora sembra un dialogo tra persone lucide e rilassate in realtà da un lato c’era un medico che terminava il turno alle sette ed era in ritardo già di qualche minuto e dall’altra una donna la cui voce veniva soffocata da fitte che sarebbero rimaste più o meno tali per frequenza e intensità. Marco è nato alle 10:25 e devo dire grazie a mio marito che mi ha assistito in modo splendido e ad una ostetrica di nome Ilaria la cui dolcezza disarmante, stonava in quei momenti dove la frequenza e la intensità delle contrazioni non erano esattamente uguali a tre ore prima.
Marco è nato e io non l’ho voluto vedere subito: lo immaginavo sporco, quasi trasfigurato dopo tutta quella fatica per uscire. Ricordo solo di aver detto a mio marito: "E' bello? Vai con loro, io sto bene!"
Qualche minuto più tardi era lì nelle mie braccia. Era bellissimo, tutto raggomitolato in quel telo di carta verde da cui uscivano due manine con le unghiette lunghe e noi non potevamo non piangere dopo tutti quegli anni di attesa, dopo aver pensato a lungo che quel giorno non sarebbe mai arrivato, dopo nove mesi in cui continuavo a ripetere a me stessa di non affezionarmi troppo a quella creatura perché nessuno mi poteva garantire che l’avremmo davvero stretta a noi. Era bellissimo ed era lì.

Due anni più tardi ero andata alla ricerca dei mitici appunti. Il vissuto di due anni prima era ancora molto vivo nella mia mente ma c’erano aspetti che non avevo vissuto in prima persona e quindi un ripassino poteva essere d’aiuto. Ad esempio "le acque" erano state rotte dall’ostetrica in pieno travaglio: "Cosa avrei dovuto fare se fosse successo così per caso?"
Luca è nato il 20 ottobre dello scorso anno, sempre di sabato mattina a due anni meno due giorni dalla nascita di Marco.
Luca non aveva ascoltato gli appunti che rileggevo da giorni: è arrivato mentre ancora io e Antonio dovevamo capire cosa stesse succedendo.
Erano le ventidue e venti circa di un venerdì sera e stavo guardando Zelig in TV. Antonio dormiva sul divano accanto a me e Marco stava bevendo l’ultimo bicchiere di latte della giornata. Non ero stata molto bene quel giorno, ma tutta la gravidanza di Luca è stata problematica per cui davo poco peso a qualsiasi sintomo e poi aspettavo il mal di schiena per dire: "E' ora!".
Avevo cucinato i pizzoccheri accompagnati eccezionalmente da un bicchiere di vino e poco dopo aver cenato ho iniziato a sentirmi strana. Le fitte alla pancia erano normali: un piatto pesante, la digestione lunga ma invece di passare peggiorava.
La sensazione che Luca non avrebbe aspettato fino a domenica era forte ma ripetevo a me stessa che era più il desiderio di doppiare il compleanno di Marco e la voglia di tenere tra le braccia il piccolo che da quasi nove mesi avevo dentro me ad animare le speranze che non gli effettivi sintomi di un parto imminente. Mi sbagliavo.
Erano le ventidue e venti circa e improvvisamente non sento più alcun dolore, mi alzo dal divano con Marco in braccio e vedo cadere a terra delle macchie rossastre. Non ricordo benissimo la sequenza degli eventi ma ero terrorizzata. Penso di aver appoggiato Marco nel suo lettino e di essere corsa in bagno: le macchie non erano più sparse, ma un flusso continuo a cui non ero preparata. "Ma come, chi ha mai parlato di sangue? Mi avevano detto che era possibile una rottura delle acque, non sangue!". In dieci minuti eravamo tutti e tre pronti per andare in ospedale.
"Cosa succede ora? Perché il sangue?". Le nostre domande e i nostri volti sconvolti contrastavano con la risoluta fermezza della signora che stava in accettazione. "Ce la fa a salire a piedi o devo chiamare l’ambulanza? Ma fa prima a salire a piedi." "Salire dove? Il sangue? Cosa succederà adesso?" . Vengo visitata da un ginecologo e da una ostetrica: "Quanto sangue ha perso? Come è successo? Cosa ha mangiato questa sera? Che titolo di studio ha?" . Io ero sconvolta, mio marito e mio figlio in pigiama color violetto di una taglia più grande della sua, non so perché ricordo bene questo particolare, stavano fuori dalla stanza senza che nessuno dicesse loro nulla e nulla dicevano a me dentro se non interrogarmi. Ricordo di aver guardato l’ostetrica inebetita dopo l’ultima domanda: "Titolo di studio?". Non so se la momentanea afasia fosse dovuta ad una amnesia fulminea o se fossi riuscita a pensare alla stupidità della domanda in un siffatto momento. Tutti continuavano a tacere, a tacere su quello che stava succedendo, sul perché stesse accadendo e su come si sarebbe evoluta la situazione. Il silenzio era terribile, avevo paura. Non paura per il piccolo che ancora non avevo visto ma paura di perdere quello che già avevo. Pensavo a come sarebbe stata la vita di mio marito e mio figlio senza di me, ricordo di aver pensato che Antonio si sarebbe potuto innamorare di nuovo ma mio figlio? Non potevo lasciarlo solo, dovevo proteggerlo, aiutarlo a crescere. Finalmente l’ostetrica mi spiega il possibile evolversi degli eventi e mi dice di non temere perché lei sarebbe stata con me fino al mattino seguente. Avremmo trascorso la notte insieme.
La spontaneità di quella signora e la sua disponibilità a spiegare mi avevano rassicurato non poco, in quel momento era diventata la mia ancora. Ma bisognava aspettare ed era inutile che Antonio e Marco stessero lì con me: io ero in ospedale al sicuro e avevo il cellulare per qualsiasi evenienza. Ci salutiamo e poco dopo mi chiamano per una ulteriore visita: "Ha contrazioni? Perde ancora sangue, quanto? Cosa ha mangiato questa sera?" . Ancora questi maledetti pizzoccheri! Ma io stavo bene all'ora di cena. Se avessi immaginato probabilmente sarei stata a digiuno. Ci sono due ginecologi e una ostetrica e mi dicono che forse è meglio intervenire subito con un cesareo per un probabile distacco di placenta. "Forse è meglio?". Improvvisamente ricordo le parole di una donna conosciuta l’estate prima al mare, madre di un bambino celebroleso: "Se ti succede qualcosa, non ascoltare alcun parere e chiedi il cesareo subito. Quando Luca sarà nato ti racconterò i perché del mio Alberto." "Andiamo!".
Marco era a casa e dormiva, Antonio era a casa preoccupato e ignaro di tutto perché non avrebbe potuto aiutarmi questa volta e Marco aveva bisogno di lui.
Luca è nato alle 00:23. Era piccolo, i capelli ricci e appiccicaticci, tutto sporco di siero e stava lì in alto tra le braccia del medico che l’aveva sollevato per mostrarmelo, stava lì dietro il telo che divideva la parte superiore del mio corpo da quella inferiore dove i medici stavano ancora lavorando, stava lì strappato da me.
Mi avvicinano il piccolo per qualche secondo, non capisco ancora cosa è successo. Ero stanca e mi sentivo sola. Avrei voluto che Antonio fosse lì con me ma almeno il piccolo stava bene. Alla una e trentacinque esco dalla sala operatoria con un catetere e un drenaggio. Ecco Antonio: "Che ci fai qui? Hai visto il piccolo? Come sta? E Marco dove l’hai lasciato? Vai a casa da lui, noi stiamo bene! Ormai il più è passato.".
Non c’era ancora entusiasmo, lo shock era ancora visibile sui visi di entrambi. Antonio a casa, io sdraiata su un lettino della sala parto in attesa di una camera con un assorbente inumidito in bocca per attutire la sensazione di sete. Vedevo le lancette dell’orologio appeso alla parete, di tanto in tanto accarezzavo la pancia ormai vuota, ero tranquilla ma ancora non del tutto cosciente di quello che era accaduto. Ogni tanto qualche messaggio sul cellulare di Antonio e qualche risposta da parte sua. Verso le sei e trenta gli domando: "Hai già avvisato qualcuno?" "Forse un messaggio sul web, non ricordo." . Nessuno aveva violato ancora quel segreto, nessuno dei due aveva voluto condividere con altri la nascita di nostro figlio, come se quell’evento così intimo e unico che avevamo vissuto due anni prima e che ci era stato inspiegabilmente rubato quella notte avesse bisogno ancora di concretizzarsi se non nei fatti, nella nostra mente e nella nostra intimità di coppia. Solo verso le undici Antonio e Marco mi hanno portato Luca, solo a quell’ora ho potuto stringere tra le braccia il mio rospetto, solo in quel momento ho pensato a mio figlio, al fatto che fosse vero e già lì con noi.

giovedì 23 ottobre 2008

Le Quadri si appendono al muro

A volte c’è bisogno di tempo per riflettere, per metabolizzare, per accettare.
E’ una storia semplice e comune.
Mamma ha una laurea presa con il massimo dei voti 10 anni fa e che giace in fondo al cassetto della biancheria.
Mamma è un quadro, inquadramento/categoria lavorativa, e con la cessione del ramo dell’azienda in cui lavora tutto il suo super minimo è stato convogliato nella voce “indennità quadri”. Con il rientro in ufficio dopo il secondo figlio ha chiesto di lavorare solo sei ore e la voce indennità quadri è stata sospesa per contratto. “Come? Ok il regolamento ma lì c’erano somme maturate negli anni che in teoria sono diritti acquisiti e quindi inviolabili tutelati per legge, bla bla bla…” L’origine di quelle somme non importa più a nessuno, di certo non all’azienda e tanto meno al sindacato. Comunque Mamma ha ottenuto il part time ed è già molto: seguirà i suoi due figli e arriverà un po’ meno stanca a sera.

Mamma è in ufficio. Finalmente un po’ di respiro dopo tanti mesi dedicati solo alla casa e ai figli. Finalmente altri impegni, altro tipo di soddisfazione.
Mamma si illudeva: ha chiesto il part time e non è più disposta a trasferte che poco si conciliano con l’orario ridotto e quindi non c’è lavoro. “ Cosa? Finchè ritorna come prima?”
Prima Mamma stava in ufficio dalle 8:00 alle 21.00 o poco più, trascorreva nottate a rivedere bozze ad ultimare verbali, spesso i sabato era in ufficio e qualche domenica lavorava da casa. “A queste condizioni posso lavorare ancora?” E sì perché per fare carriera non è possibile lavorare solo 8 ore, per poter avere una soddisfazione professionale non deve avere una vita privata fuori dall’ufficio! Mamma non si perde d’animo e prova a parlare con qualche collega e amico. “Non è semplice se ti danno attività poco qualificanti temono ripercussioni da parte del sindacato a cui ti potresti appellare per mobbing, sei pur sempre un quadro!” “Mobbing???? Ma io voglio lavorare le mie sei ore, anche cambiare attività, ma lavorare! Questo non è mobbing?”
Mamma continua a pensare: “E se provassi a muovermi? Conoscevo qualcuno qua dentro, ho sempre lavorato su progetti a contatto con persone che ricoprono posizioni importanti, mi posso reciclare… E se i bimbi si ammalano? Non ho nessuno a cui lasciarli, devo stare a casa. Come gestirei un eventuale lavoro impegnativo e magari in un nuovo ufficio se mi dovessi assentare spesso?”
Mamma ha deciso per ora va bene così: le manca un lavoro gratificante, le manca l’essere considerata per quello che faceva, le manca la visibilità che le dava il lavoro; ma va bene così.
Però non può fare a meno di pensare che non esiste la parità dei sessi e se anche esistesse nei fatti, non esiste nella sua testa, perché Mamma non si sente uguale.
Prima di tutto è una mamma e poi una donna che lavora e allora accetta, a malincuore accetta di essere un quadro che per sei ore è parte dell’arredamento dell’ufficio, che ha gettato alle spalle anni di sudata crescita professionale perché è fuori dal mercato del lavoro e dalle sue regole.